Lavoratori, ONU e Brexit

Lavoratori, ONU e Brexit

Tonino D’Orazio, 16 giugno 2016.

Pochi ricordano che all’ONU c’è una sezione per il rispetto dei diritti umani e all’interno vi è una Commissione Economico Sociale e Culturale, che ogni 5 anni, più o meno, o su richiesta, si focalizza sulla situazione di un paese, soprattutto se quest’ultimo chiede prestiti internazioni. Essa verifica se viene rispettata la Convenzione firmata dagli Stati in merito agli obblighi sottoscritti. Per esempio la salvaguardia dei diritti umani nell’adozione di programmi di risanamento di bilancio, compresi i programmi di adeguamento strutturale e programmi di austerità , come condizione per l’ottenimento di prestiti. Vale la pena ricordare alcuni articoli.

La Commissione (indipendente) tutela una serie di diritti della Convenzione internazionale quali i diritti economici, sociali e culturali. Più a rischio sono i diritti del lavoro, tra cui il diritto al lavoro (art.6); il diritto a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro, compreso il diritto a salari equi e a un salario minimo che permette ai lavoratori una vita decente per se stessi e le loro famiglie (art. 7); il diritto alla contrattazione collettiva (art. 8); il diritto alla sicurezza sociale, anche per i sussidi di disoccupazione, l’assistenza sociale e le pensioni di vecchiaia (artt. 9 e 11); il diritto a un adeguato standard di vita, compreso il diritto al cibo e il diritto alla casa (art. 11); il diritto alla salute e l’accesso a un’adeguata assistenza sanitaria (art. 12); il diritto all’istruzione (artt. 13 e 14). Le famiglie a basso reddito, soprattutto con i bambini, e i lavoratori con le qualifiche più basse sono colpiti in modo sproporzionato con misure come la perdita del posto di lavoro, il congelamento del salario minimo e i tagli delle prestazioni di assistenza sociale, potenzialmente con conseguente discriminazione per motivi di origine sociale o di proprietà (art. 2, par. 2). Inoltre, la riduzione dei livelli di servizi pubblici forniti o l’introduzione o l’aumento delle tasse degli utenti in settori come la cura dei bambini e pre-scolastica o servizi di pubblica utilità e dei servizi di sostegno alle famiglie, hanno un impatto sproporzionato sulle donne, e, quindi, possono costituire una passo indietro in termini di parità di genere (arti. 3 e 10). Insomma un concetto socialista esteso in un contesto neoliberista pregnante.

Prendiamo ad esempio la relazione del 29 giugno 2016 sulla Gran Bretagna.Il verdetto è schiacciante in quanto il Regno Unito ha violato il diritto internazionale dei diritti umani perseguendo una politica di austerità basata sul regresso della maggioranza della popolazione.

Sorprendentemente (?), sembra che il massimo voto Leave sia situato in roccaforti tradizionali del lavoro in cui l’UKIP di Farage ha vinto, cioè in zone che hanno subito la peggiore avversità economica e quindi abbia votato più fortemente per il Brexit, ritenendone responsabile anche Bruxelles.

Il reddito delle famiglie nelle zone meno ricche del paese (quindi entroterra e campagne in giornalistico “contrasto” con le città) sono probabilmente più dipendenti da prestazioni sociali statali e servizi pubblici. La stessa pressione, percepita sui servizi pubblici in diminuzione, ha sicuramente contribuito ad una maggiore resistenza all’immigrazione. Allo stesso modo, la promessa di spesa in più disponibile per il servizio sanitario nazionale sembra essere stato convincente. A me sembra che il contrasto all’austerità della troika di Bruxelles, metodi e finalità, abbia contato, (brutto esempio in prospettiva), molto più di quel che si dice, in questo referendum.

Ed è per questo che il rapporto insolitamente critico delle Nazioni Unite è così importante .

La relazione è stata emessa da un comitato di esperti indipendenti (senza retorica e propaganda) che controlla la protezione dei diritti economici, sociali e culturali negli Stati, in particolare per i gruppi svantaggiati.

Le sue conclusioni sono dure: le riforme previdenziali e i tagli ai servizi pubblici hanno avuto un impatto sproporzionatamente negativo sulle famiglie a basso reddito e “dovrebbe” essere invertito. Le riforme regressive alle imprese, riduzione dell’imposta di successione e dell’IVA hanno diminuito le capacità del Regno Unito “per affrontare la persistente disuguaglianza sociale“, mentre non si sta facendo abbastanza per combattere l’evasione fiscale da parte delle imprese e degli individui con patrimoni ingenti. Spesso il piccolo beneficio del sanzionamento è speso male e in modo abusivo. Il deficit abitativo è ora “critico” e contribuisce agli “eccezionalmente elevati livelli di senzatetto“. E’ stata presa una azione insufficiente per affrontare la crescente dipendenza dalle banche del cibo. I livelli delle prestazioni lasciano molti in uno stato persistente di indigenza.

E nonostante tutto i sacrifici i bei tempi propagandati non sono mai venuti. Secondo il Comitato, il “salario minimo nazionale” “non è sufficiente a garantire un livello di vita dignitoso“; i livelli di occupazione sono in aumento, ma troppe persone sono mal pagate e i posti di lavoro sono poco qualificati o con contratti a zero ore. Anche prima del Brexit, l’Institute for Fiscal Studies proiettava la povertà infantile in aumento del 50%, con quasi uno su cinque che vivrà in assoluta povertà entro il 2020. L’austerità, nel Regno Unito. ha dimostrato di essere molto più severa per alcuni rispetto ad altri. Nulla di nuovo se non essere il verdetto della Commissione delle Nazioni Unite durissimo.

Il senso di divisione, la disillusione e la diffidenza del pubblico a cui il programma di austerità ha contribuito, ovviamente non spiega tutto del voto referendario vinto dal Brexit, ma è importante riconoscere la sua parte e non disconoscerla con argomenti svianti e fare finta di non capire.

O discorsi speciosi. Con nuove sirene ma con i soliti argomenti.

Esempio la Lagarde del FMI che continua con le lacrime di coccodrillo a dire quanto abbiano sbagliato, tutti, a comprimere in questo modo i popoli con una austerità che non permette più né consumi e né guadagni (anche per loro) e sa che in realtà inizia ad esserci una pericolosa repulsione di massa verso il potere oligarchico delle banche e dei politici, ovviamente asserviti. Finché era la Grecia, dove comunque una piccola scintilla è partita, pazienza, poiché mentre esigeva ferocemente il rimborso del “debito” con i soldi “elargiti al popolo greco” dalla BCE, chiedeva all’Europa di “tagliare” e ristrutturare il proprio debito. Cosa che nessuno ha fatto, forse un giorno, al di là del 2018. Erano solo chiacchiere di approcci dissuasivi per rinfocolare una sempre presente linea politica di speranza per il futuro. Tanto i poveri ci cascano sempre, altrimenti come spiegare democraticamente la drammatica realtà attuale della sopraffazione dei pochi sui molti.

I conservatori inglesi, insieme ai laburisti di Tony Blair, in questi ultimi venti anni, sono responsabili o no del degrado del proprio paese? Nel nostro, ForzaItalia/Lega Nord e il Pd, sono responsabili della non applicazione della Convenzione sui Diritti Umani della Nazioni Unite in merito al diritto al benessere e non alla miseria del proprio popolo?

Perché stupirsi del messaggio del nuovo primo ministro inglese Theresa May, sempre dei conservatori, che promette di governare gli inglesi per il lavoro piuttosto che per i privilegiati. Il suo primo intervento da premier è stato dedicato a milioni di inglesi laboriosi, promettendo, davanti alla porta di Downing Street, No10, di governare “per loro”. In un messaggio successivo ha insistito che sarebbe stata dalla parte dei sacrificati e di quelli che combattono ogni giorno per far quadrare i conti. Cavalca lei stessa il programma un po’ più “operaista” del Labour di Corbyn, approfittando delle difficoltà dovute alla spaccatura tra base e vertici (parlamentari pro-eurocratici) di quel partito. La May è un po’ come un prete che abiura a parole la propria religione per recuperare qualche voto, e non fare crollare l’impalcatura, forse già la baracca, ideologica del neoliberismo, che un duro colpo ha pur preso dal Brexit. Non è diffidenza, è solo storia e memoria politico-sociale.

 

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